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Recensione: Spezzate di J.E.S. Doyle

  Scheda libro: Casa editrice: Tlon edizioni Collana: Numeri primi Anno di pubblicare: 2022 Genere: Saggistica/Femminismo Target: All Formato: Brossura, 297 pagine Codice ISBN: 978-88-31498-65-4 Prezzo: 19,00 € Risvolto di copertina: Donne che sbagliano. Donne che crollano. Donne che, con la loro condotta, osano sfidare i limiti imposti da una cultura patriarcale. Donne spezzate dal morboso piacere di vederle fallire. È di queste donne che Jude Ellison Sady Doyle parla nel suo nuovo libro, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, esplorando il meccanismo perverso che stritola e soffoca le donne di ogni epoca. Da Charlotte Brontë a Miley Cirus, da Britney Spears a Hillary Clinton, Doyle ricostruisce l’ascesa e la caduta di queste donne esplorando il fenomeno sociale della trainwreck: il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Come già ne Il mostruoso femminile, questo saggio crudo e graffiante è anche un invito rivol

Segnalazioni della settimana


Cari lettori, 
Benvenuti al consueto appuntamento delle 'Segnalazioni della settimana'. L'opera che vi presento è il primo volume della trilogia Tragodìa di Elisabetta Scaramelli: 'Il gelo nel cuore'. Il secondo volume, 'Il figlio dentro', probabilmente uscirà per fine Ottobre. Il capitolo finale (La morte delle sirene), invece, è in corso d'opera. Spero che vi incuriosisca. Buona lettura.

Titolo: Tragodìa. Il gelo nel cuore
Autrice: Elisabetta Scaramelli 
Casa editrice: Self-publishing 
Anno di pubblicazione: 2018
Genere: Romanzo psicologico 
Targhet: All
Formato: Ebook/ Cartaceo, copertina flessibile, 314 pagine 

Di che tratta? 

Nella bigia Torino di inizio 1900, un vice commissario di polizia misantropo e scontroso si trova coinvolto nella vicenda tragica di un'annegata al punto da rivoluzionare la sua idea della morte e dell'anima. Inizia a temere che l’atteggiamento asettico da freddo investigatore venga meno, lasciandolo in balia delle sue debolezze, ma ancor di più paventa la possibilità che i suoi collaboratori intravedano in lui un barlume di quella pietà che ha sempre cercato di celare.
Venuto a contatto con la negligenza di alcuni collaboratori, poco interessati alle disgrazie dei miserabili, inizia a dubitare della professionalità di persone in cui prima aveva riposto la sua fiducia. Spiazzato da queste considerazioni, dopo aver analizzato l’animo altrui inizia a scorticare se stesso e scopre qualcosa di sé che si rifiutava di conoscere. Concentrato sull’indolenza degli altri, infatti, aveva accantonato i propri errori, che ora risalgono in superficie con spietatezza. 
Questo continuo ragionamento gli dà il coraggio di aprire stanze chiuse da tempo, dove si trova intrappolato in una matassa di segreti che cerca di sbrogliare usando l'acume che solitamente usa nelle sue indagini. Intanto, mentre cerca di metabolizzare quest’eredità di torbidi segreti lasciata dalla defunta madre, la sua dimora si anima di una presenza percettibile solo dal suo animo e la sua maschera diventa sempre più fragile.
L’annegata non è andata via con l’archiviazione del caso, è rimasta in lui, come un angelo agrodolce che gli dà sollievo e nel contempo lo tormenta. Ludovico si rifugia nell’assolata Grecia, ma neanche lì l’amorevole spettro l’abbandona. Anzi, diventa ancora più ossessivo e lo costringe a fare i conti con una serie di vicende al limite del sovrannaturale che l’aiuteranno a rimettere insieme molti tasselli di un mosaico ingarbugliato. In Grecia Ludovico non solo troverà le risposte agli enigmi ereditati da sua madre, ma ricostruirà la storia di Athina, la giovane suicida trovata in riva al Po.

Prologo:

Era un autunno particolarmente rigido. Un freddo pungente entrava nelle ossa e paralizzava gli arti fino a impedire i movimenti. Impigrito dal tepore del camino, Ludovico trascorreva le ore di riposo nello studio, concedendosi il piacere di una lettura tra un sorso e un altro di acquavite. A volte fissava il movimento del fuoco senza neanche sbattere le palpebre. Ascoltava il crepitio della legna e guardava le scintille che seguivano la scia del fumo risalendo la canna fumaria. Il gomito sinistro era poggiato sul bracciolo della poltroncina di legno scuro, le dita picchiettavano sulle labbra serrate. 
Era l’immagine dell’uomo pensieroso, eppure se qualcuno avesse potuto insinuarsi nella sua mente, avrebbe visto un atrio scuro e silenzioso, con le finestre chiuse sul mondo e lunghe tende damascate. Avrebbe sentito il sibilo del maestrale che, dopo aver assaporato la libertà dello spazio aperto, cerca di farsi sottile, per incunearsi nei corridoi tristi e stretti in cerca di un altro cammino. Ludovico era sempre là, dove il ticchettio dell’orologio a pendolo e il crepitare del fuoco risuonavano, mentre altrove regnava il silenzio. Apatico e irrigidito, disinteressato. Muro per sguardi indiscreti. Mondo sconosciuto dopo le Colonne d’Ercole. Colonna d’Ercole tra Vita e Morte. 
Talvolta, in quei pomeriggi, le gocce di pioggia contro i vetri della finestra frantumavano quel silenzio; ma lui continuava a fissare il fuoco, per nulla disturbato dalle ante che sbattevano o dai vetri che vibravano a ogni rombo di tuono. Nulla lo interessava. L’acquerugiola, il vento, il sole o lo scroscio di un acquazzone non avevano importanza. Non lo scuoteva neanche la consapevolezza che al piano di sopra sua madre stesse patendo per i dolori ormai acutizzati dalla malattia. Non lo sfiorava nessun senso di colpa per la mancata condivisione della sofferenza, né per la sua totale indifferenza alla diagnosi medica. Si riteneva una vittima di sua madre, tanto da non provare il rimorso per averla abbandonata al proprio destino.
Il medico di famiglia andava e veniva. Bussava, entrava e si dirigeva direttamente nella stanza della moribonda senza sentirsi in obbligo di fare i convenevoli, un cenno di saluto all’unico figlio di un caro amico o un riferimento alla gravità della malattia della signora. Malgrado la sua naturale imperturbabilità davanti alle malattie e agli ammalati, il dottor Gastaldo continuava ad amareggiarsi a causa di Ludovico, mentre svolgeva il suo lavoro nella piena coscienza che donna Maria non avrebbe superato quell’autunno. 
In nome di una vecchia amicizia con il defunto marito della signora e per coerenza professionale, si sentiva in dovere di farle visita quasi tutti i pomeriggi. E lei, rigida e impietrita, ogni tanto apriva gli occhi e guardava il soffitto. Nessuno avrebbe mai saputo quali pensieri turbinassero nella sua testa. Sarebbe morta con la stessa dignità con cui era vissuta, con la stessa freddezza, senza mostrare timori e pentimenti. Quando il medico le toccava il polso, apriva gli occhi per smentire l’apparente decesso e, schiudendo le labbra, sembrava dire: Io ci sono. Sono ancora viva. In quei momenti i suoi occhi sembravano cercare qualcuno e lo sguardo del dottore si aggrappava alle tende scure, nel tentativo di trovare la forza di ribellarsi a quella crudeltà, perché aveva compreso che quella fugace espressione pronunciava silenziosamente il nome di suo figlio Ludovico. Crudele. Uomo senza Dio. Uomo senza cuore, sangue e ossa. 
Ma lui non c’era mai. Preferiva trascorrere lunghe giornate fuori casa, ammantato nella penombra del suo ufficio. Passeggiava a capo chino e con le orecchie tese, per assorbire l’intensità dello scorrere del fiume senza lasciarsi distrarre dagli altri rumori della città. Quando gli capitava di passare davanti al cimitero, si fermava con la testa bassa. Sollevava gli occhi vitrei, piegava le labbra e sorrideva di sghembo, rifletteva sulla caducità dell’essere umano e sulla sua sciocca convinzione di una vita ultraterrena. Poi abbassava la tesa del cappello con un gesto calcolato e proseguiva, senza nessun interesse a guardarsi intorno, senza incrociare gli sguardi di chi lo scorticava prima di deviare a destra.
Non era pienamente cosciente dell’impatto che aveva sulla gente. La sua presenza destava scompiglio, le sue parole acuminate generavano brusio e sbigottimento; aveva anche assaporato il fastidio degli occhi indagatori su di lui, ma non si riteneva così solido da non passare inosservato. Cercava di essere invisibile, come uno spettro vagante e malinconico che attraversa le pareti senza farsi scoprire, ma non ci riusciva. Quando attraversava il corridoio con le sue lunghe falcate o la strada lastricata che lo conduceva a casa, il passo felpato raggiungeva le orecchie della gente come il rimbombo di un’esplosione. 
Viveva la sua vita come un essere di passaggio. Non aveva interesse a lasciare traccia di sé, ad amare e condividere gioie e amarezze. Si riteneva asettico. Vita, morte e malattia erano solo concetti, parole di un dizionario, una condizione naturale dell’essere umano. Non si struggeva, quando si immaginava vecchio e sbiadito come una vecchia fotografia che si sta decomponendo o moribondo e solo con gli occhi derisori sul crocifisso. La sua esistenza era come una lunga retta che non poteva essere intersecata, con un punto d’origine e una fine che lo attendeva a braccia aperte. Non aveva paura, non volgeva lo sguardo indietro per contare i passi compiuti, non pianificava, non deviava. I suoi occhi erano sempre fissi sul punto di non ritorno. 
Cos’era allora la vita per Ludovico? Era come una passeggiata lungo il Po, un cammino sotto la nebbia e la pioggia, un’occasione di sporadici incontri in attesa di una fine che non lo spaventava affatto. Dolce riposo. Conclusione di una noiosa esistenza.

Marianna Visconti 

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