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Recensione: Spezzate di J.E.S. Doyle

  Scheda libro: Casa editrice: Tlon edizioni Collana: Numeri primi Anno di pubblicare: 2022 Genere: Saggistica/Femminismo Target: All Formato: Brossura, 297 pagine Codice ISBN: 978-88-31498-65-4 Prezzo: 19,00 € Risvolto di copertina: Donne che sbagliano. Donne che crollano. Donne che, con la loro condotta, osano sfidare i limiti imposti da una cultura patriarcale. Donne spezzate dal morboso piacere di vederle fallire. È di queste donne che Jude Ellison Sady Doyle parla nel suo nuovo libro, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, esplorando il meccanismo perverso che stritola e soffoca le donne di ogni epoca. Da Charlotte Brontë a Miley Cirus, da Britney Spears a Hillary Clinton, Doyle ricostruisce l’ascesa e la caduta di queste donne esplorando il fenomeno sociale della trainwreck: il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Come già ne Il mostruoso femminile, questo saggio crudo e graffiante è anche un invito rivol

L'angolo dello scrittore e della scrittrice: Mi chiamo Marta di Veronica Evangelisti

 



MI CHIAMO MARTA


Prendo la sua mano ruvida, grande dalle mille rughe che la solcano, la porto alla mia guancia come quando da bambina mia accarezzava e mi sentivo protetta. Quella mano dai polpastrelli duri, levigati, dai calli tanto grandi che provavo sempre a staccarglieli per togliere i segni della fatica. Lo guardo negli occhi. Mi guarda curioso come un bambino, mi sorride timido, mi chiede: 

«Chi sei?»

«Sono tua figlia, papà!»

«Ma che dici signorina! Io ho venti anni e non ho figli!»

«Ah allora mi scusi mi sono sbagliata, l’avevo scambiato per un altro!»

Lo guardo ancora, lo cerco nei suoi occhi, mio padre non c’è più. È rimasto solo il ricordo di Mario, una vaga espressione contrita, di quando non approvava quello che stessi facendo, di quando con un piglio dell’occhio mi ammoniva per qualcosa. Ora si sente osservato è diffidente, mi scruta, non si fida di me sua figlia Marta che tanto l’ha amato, della sua unica figlia per la quale lui era il suo supereroe.

Non è la morte che fa paura ma la malattia, il pensiero che mio padre non abbia più ricordi di me, ma soprattutto di lui, del suo vissuto, mi fa sempre pensare al perché siamo venuti al mondo! Quale scopo? La morte è troppo semplice, non vale…la sofferenza invece merita una spiegazione. Io lo avevo vissuto mio padre, un uomo buono, un lavoratore, uomo di cantiere, non aveva studiato ma aveva dato l’anima perché io diventassi un giorno la sua dottoressa. Quel giorno alla laurea venne con le scarpe sporche di fango, non gli avevano dato il giorno di permesso ed era riuscito solo a venire alla discussione, si era messo in un angolo per non farsi vedere. Mentre discutevo la mia tesi lo cercavo con gli occhi, lo vidi all’improvviso, piangeva…era la prima volta che entrava in un’aula magna, si guardava intorno stupefatto, incrociammo i nostri sguardi e lui mi alzò il pollice. Era lì per me. Centodieci e lode! non voleva farsi la foto con me, si vergognava per come era vestito, io l’ho amato per quello, era lui era il Sor Mario del cantiere, profumava di lavoro ma annusandolo meglio respiravo l’odore della dignità. Il ricordo della mia laurea…svanito. Provai a raccontarglielo un giorno, fu inutile, mi disse: «Sei una brava ragazza, se un giorno avessi una figlia, la farei studiare come te! Come ti chiami?» 

«Marta»

«Un bel nome, quando avrò una figlia, la chiamerò così.»

Marta lo scelse lui, in onore di sua sorella che morì da bambina, un lutto che lo segnò per tutta la vita al punto da ricordarla attraverso me. Non so perché, ma si era sentito sempre responsabile per la morte della zia, stavano giocando la palla andò in strada e Marta fu investita. La madre, nonna Aurelia lo ha sempre incolpato solo per il fatto che lui era il fratello più grande e doveva badare a lei. Povero papà, è un bene che questo ricordo sia stato cancellato. Forse l’unica nota positiva del morbo di Alzheimer è che alcune cose, quelle di cui ti vergogni che proprio non ti fanno vivere sereni, be almeno quelle possa cancellarle. 

Improvvisamente chiama Annarella. È preso da qualcosa nell’aria, come quando i bambini neonati osservano qualcosa a noi invisibile e ridono, ho sempre pensato che siano gli angeli, ma questa volta invece papà la vede. L’osservo, è preso dal muro, gli annuisce, chiama Annarella, poi mi guarda e mi indica il muro, e mi dice: «la vedi quella là? È la figlia del postino, quanto mi piace, ma tanto prima o poi me la sposo…si chiama Annarella!»

Mamma quanto mi manchi! Delle volte vorrei chiamarla solo per sentire la sua voce, mi direbbe di stare vicina a papà, che quello da solo non sa cucinarsi neanche un uovo…ah se mamma sapesse che papà dopo la sua morte anche lui ha lasciato il suo corpo, non nell’anima ma nel cervello. Mamma morì dopo un tumore, avevo diciotto anni, ecco perché decisi di laurearmi in medicina, volevo fare l’oncologa, ma poi non riuscii le emozioni prevaricavano su me, optai per la specializzazione in pediatria, mi piace l’odore dei bambini, quelli neonati sanno di buono. I Bambini sono il futuro, bisogna crescerli bene per lasciare questa eredità chiamata vita. I bambini non hanno ricordi, è per questo che sono puri, non hanno basi per essere esperti sulla vita, non hanno dolore da raccontare che possa essere chiamato esperienza. 

Mio padre è un bambino, è diventato anche goloso, ruba le caramelle qui in clinica. Quando era piccola una volta rubai una gomma da masticare, lo raccontai tanto fiera, che quando mi diede un ceffone in pieno viso non ne capii il motivo, ma il peggio fu quando mi portò al bar per pagare la gomma e chiedere scusa, fu ancora peggio. Ora invece lui, con quelle caramelle ne va fiero e se lo sgrido dice che non accetta rimproveri dagli sconosciuti. Mette la mano in tasca del giacchetto, tira fuori una caramella all’anice, mi chiede se ne voglio una, gli rispondo di no, poi si gira e mi chiede: «Come ti chiami?»

«Marta».

Ricordo perfettamente il giorno in cui la malattia venne allo scoperto, inizialmente pensavo avesse la demenza senile, non ricordava dove metteva le cose, fin quando una mattina lo trovai intento a riconoscersi allo specchio. Mi sedetti con lui, aveva avuto per un attimo lo sguardo diverso, fu lì che l’Alzheimer si mostrò ai miei occhi per la prima volta.  Quando andammo dal Neurologo, diceva che era il millenovecentonovantanove, poi si corresse con il millenovecento… mi guardò perso, muoveva velocemente gli occhi, non capiva cose gli stesse capitando, era smarrito. Io invece ricevetti un duro colpo, mi mostrai forte, ma fui investita da una secchiata gelida d’acqua. Non si è mai pronti per un’amara scoperta.

Il suo sguardo si posa su un albero fuori dalla finestra, si alza si stiracchia e poi felice come una pasqua dice che oggi andrà a costruire una casa, deve fare i tramezzi e solo lui ha quella precisone che a oggi gli altri non hanno. E’ contento, cerca i mattoni per la sala comune della clinica, non li trova, inizia a innervosirsi, inevitabilmente gli scappa qualche bestemmia, di quelle che scioccherebbero chiunque fosse credente. Lo so che dovrei calmarlo ma per un attimo ho rivisto in lui un briciolo di umanità, per poco era il sor Mario del cantiere. Gli Oss sono corsi un suo aiuto, lo hanno calmato, è stato nervoso per tutto il giorno.

Delle volte mi chiedo che senso abbia continuare ad andare a trovarlo, è inutile, non ha bisogno di me…lo so però che sono io ad avere bisogno di lui, e in quei momenti che torna per poco un briciolo di papà, allora mi sento felice. È un’agonia. La gente mi dice di pregare, guardo Nunzia, una vecchietta di 98 anni che ancora cammina sulle proprie gambe, si è innamorata di mio padre, mi fa tenerezza, solo che lui le chiede in continuazione come si chiama. Nunzia è sorda e un po’ritardata, ma lei quando vede papà si illumina e riaffiora sul suo viso i tratti di una bambina birichina. 

Delle volte mi trovo a pensare a quando papà non ci sarà più, la domanda è sempre quella, la stessa da quando glie hanno diagnosticato la malattia: “ Ma se in vita ha l’Alzheimer e la sua anima non ha ricordi, è come svanita, quando sarà morto vagherà nell’oblio? Mi verrà in sogno? Mi proteggerà da lassù? Ricorderà mia madre? E se avessero ragione gli atei, che dopo la morte finisce tutto e la speranza di un paradiso o un a dimensione parallela sia solo una nostra convinzione, per dare un senso a questa giostra chiamata vita?”

Ah papà! Non trovo pace. Ho l’anima in tempesta, sono arrabbiata con la vita, con il mondo e non riesco a trovare quiete, non vedo fine in questa tempesta, non vedo luce in questo tunnel. Vorrei solo trovare protezione di nuovo tra le tue mani grandi, accoglienti che prendevano ogni mia lacrima, quelle mani crespe e rugose tanto forti da sollevarmi da terra. Vorrei che il tuo bacio alleviasse le mie sofferenze, come da bambina se cadevo e mi facevo male, bastava il bacetto della bua a farmi passare ogni sofferenza e rimettermi in gioco. Ora sei tu che mi chiedi quelle attenzioni, che piangi come un bambino, che scalpiti e che una carezza ti fa sciogliere. Mi sarebbe piaciuto vederti da piccolo, chissà se saremmo diventati amichetti, hai sempre detto che io ho ripreso il tuo carattere, be allora ne avremmo sicuramente combinate delle belle. Ci passiamo due giorni di differenza sul calendario, ma trent’anni nella vita. Il tuo compleanno lo hai sempre festeggiato, non ci hai mai rinunciato, anche se subito dopo veniva il mio. Assurdo pensare ora che non ricordi neanche quando sei nato.

«Signorina, signorina…Come ti chiami?»

«Marta, sono la tua Marta!»

«Oh no la mia Marta è morta tanto tempo fa, sa avevo una sorella, la mia sorellina…» piange « la mia sorellina, era lì per terra senza una scarpa, con il viso tutto…tutto…Scusa mamma, scusa mamma non l’ho fatto apposta! Mamma ti prego!»

«Sh! non ci pensare, non è stata colpa tua! La vuoi una caramella?»

Prende la caramella, trema, la scarta, piange, la mangia e la sua mente di nuovo si spenge, sorride fuori alla fronda dell’albero.

Ah papà, non so quanto potrò ancora soffrire questa situazione. Mi vergogno a dirlo, a pensarlo, ma purtroppo è vero, penso a quando morirai, sarà per me la fine di una sofferenza, non ce la faccio più a vederti così, perso ogni giorno nel labirinto della tua mente. Mi mancherai, anzi a parte il tuo corpo la tua anima già è andata in buona parte. Il corpo è rimasto una scatola vuota, che non si può più riempire. 

Sono arrivata in clinica, questa mattina c’è un bel sole che entra dalla finestra, è aprile, i primi tepori, le giornate allungate, l’euforia della Pasqua, gli ho portato un uovo di cioccolato, mi ha chiesto cosa era?

Non riconosce più le alcune cose, gli ho chiesto di mangiarlo, aveva paura, mi guardava con diffidenza, ero una sconosciuta in quel momento. Mi sono sentita come se fossi stata la strega cattiva con la mela in mano di Biancaneve. Non fa nulla papà, l’uovo lo mangio io.

Gli chiedo: «Come ti chiami?»

Lui si gira, sta per rispondermi, ci pensa, si volta verso l’albero, ride, mi guarda e mi dice: «Lo lo so come mi chiamo, sei tu che non la sai, dimmi un po’ se te lo ricordi?»

Astuto anche nella malattia «Ti chiami Fausto!»

«Oh… brava hai visto che lo sai come mi chiamo?»

Mi osserva, curioso e mi chiede: «Come ti chiami?»

«Marta! »

Non ricorda più il suo nome ormai da mesi, pazienza poco male ha un etichetta di meno, in fin dei conti il nome non ce lo scegliamo noi, se avessi potuto mi sarei chiamata Arianna e non Marta, un nome appartenuto a una bambina morta. 

È arrivata l’estate, vorrei partire per le vacanze, mi sento così in colpa ma ho bisogno di staccare la spina, penso che per lui non cambi nulla se parto o no, tanto non si ricorda di me, ma io? io ho bisogno di lui, mi sento male a lasciarlo. Alla fine mi convinco che almeno tre giorni non sono molti, me li concedo. Vado in clinica, mi guarda e mi dice: «Martina l’hai comprato il pane?»

Mi ha riconosciuto, piango, annuisco, mi chiede curioso: «Martina perché piangi hai la bua, vieni che papà ti da un bacetto, ma non farti vedere da tua madre altrimenti ti sgrida che hai sporcato il vestito della festa».

Lo abbraccio e lo bacio «papà sei tu la mia medicina»

Vado in vacanza tre giorni, mi rincuoro, mi svago, mi concedo un’avventura con uno sconosciuto che non rivedrò mai più, in fin dei conti ho avuto mio padre per una vita e ora è un estraneo perché non provare…torno dalle vacanze, sono felice, vado in clinica lo trovo al letto, ha sonno, sono due giorni che non vuole alzarsi. Penso che allora la mia presenza la sentisse, mi sento un verme, l’ho abbandonato. Come ho potuto? Magari non mi ricorda ma il calore umano lo percepisce.

Un mese di agonia, una sofferenza oltre il limite umano, ogni giorno gli dico: «sono Marta papà sono qui, ci sono.»

Papà ora che sei con mamma, ricordati di me, sono Marta.


Veronica Evangelisti 

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