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Recensione: Spezzate di J.E.S. Doyle

  Scheda libro: Casa editrice: Tlon edizioni Collana: Numeri primi Anno di pubblicare: 2022 Genere: Saggistica/Femminismo Target: All Formato: Brossura, 297 pagine Codice ISBN: 978-88-31498-65-4 Prezzo: 19,00 € Risvolto di copertina: Donne che sbagliano. Donne che crollano. Donne che, con la loro condotta, osano sfidare i limiti imposti da una cultura patriarcale. Donne spezzate dal morboso piacere di vederle fallire. È di queste donne che Jude Ellison Sady Doyle parla nel suo nuovo libro, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, esplorando il meccanismo perverso che stritola e soffoca le donne di ogni epoca. Da Charlotte Brontë a Miley Cirus, da Britney Spears a Hillary Clinton, Doyle ricostruisce l’ascesa e la caduta di queste donne esplorando il fenomeno sociale della trainwreck: il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Come già ne Il mostruoso femminile, questo saggio crudo e graffiante è anche un invito rivol

L'angolo dello scrittore e della scrittrice: Burnout di Marco Casisa

 


Burnout

A coloro che accettano di darsi senza misura, troppo spesso nell'anonimato sociale e a loro rischio e pericolo, si centellina appena un po' di riconoscimento, si nega la competenza e si contesta l'iniziativa quando questa scuote il potere. Non finiremo mai di sostenere che quando il lavoro finisce per essere rifiutato da chi lo fa, significa che è divenuto rivoltante. 

Yves Clot, La funzione psicologica del lavoro


Ore 17.30 


Turno mattiniero terminato.

Numero decessi: 2

Numero vivi: restanti.


È già da un anno che lavoro in ospedale, 365 giorni, 36 ore a settimana, dalle 6 alle 9 ore al giorno, con turni quasi mai costanti, con mansioni quasi sempre uguali, con motivazioni ormai nulle.

In pratica la mia vita lavorativa è scandita dal susseguirsi di nomi, numeri e facce a cui non presto più attenzione: sono codici a barre, da scansionare, marchiare e inserire in una lista, come pezzi di carne al banco alimentare. L’empatia, che è fondamento della mia professione, ormai è svanita per far posto a un freddo, logorante, declino inumano.


Ore 18.00 


Mezz’ora d’attesa, il ticchettio delle lancette su un orologio appeso al muro, e una voce stranamente calma e gentile, m’invita a entrare nello studio adiacente alla sala d’attesa.

"Prego, si sdrai" 


Mi accoglie un uomo di mezz’età, giacca nocciola, camicia grigia, taccuino in mano e biro pronta a scrivere qualcosa su di me, a scandagliare la mia mente, la mia vita.


"Dottore, come le raccontavo nell’ultima seduta, ormai sono arrivato al punto di non provare più niente. Mi sento come una lastra di marmo, come se non avessi più un’anima. Prima era diverso, bastava un non nulla per suscitarmi una qualunque emozione, mentre ora, nemmeno un sorriso riesce più a scaldarmi, anche se nella mia testa brucio costantemente."


Mi osserva incuriosito da quella mia riflessione, spinge con un dito gli occhiali sul naso, per poi passare in rassegna gli appunti. 


"Signor Fiumetorto, ho analizzato il suo caso e posso dirle con certezza, di essere arrivato a debite conclusioni." 


Inforca al meglio gli occhiali tenendoli per un astina. Lo ascolto in rigoroso silenzio, mentre il tempo scorre, mentre conto i minuti, secondi per secondi. Sono impotente, incapace di comprendere cosa mi stia accadendo, ma prendo fuoco a ogni istante, come se in quella stanza il mio corpo stesse ardendo.


"Da ciò che lei più volte mi ha detto nelle nostre sedute, si può ben notare, un gravoso distacco dalla realtà e da ciò che la circonda, nella sua sfera lavorativa s’intende. Per lei ogni singolo giorno appare uguale: Si alza di buon mattino, va a lavoro e terminato il suo turno torna a casa, nel suo appartamento in periferia. Cena, scaldando del cibo precotto nel suo microonde, e beve il suo solito bicchierino, per poi andare a dormire. La mattina successiva, tutto si ripete nella stessa identica maniera, come un automatismo da fabbrica, alienante."


È un monologo su di me, una spiegazione razionale, documentata dalle sedute a cui mi sono sottoposto. Non ho più stimoli, vorrei poter resettare tutto, tornare indietro e forse ricominciare, come in un videogioco. Solo che non si può tornare indietro fino allo start e ripartire.


"In conclusione, lei non si sente parte di una comunità, non crede più in se stesso e nel suo mestiere, non si sente grato per ciò che ha e che fa, impotente in un ruolo di subalterno, che le sta stretto. E infine odia la sua condizione di tristezza cronica, il suo dolore, di cui ormai talmente è pregno da non riuscire a liberarsene per far spazio a nuove emozioni. Signor Fiumetorto, lei è un grave caso clinico, in un loop costante tra dolore e frustrazione: lei è in pieno Burnout."


Non conosco questa parola, ma resto interdetto restando ad ascoltare. È come un’onda che mi trascina innanzi alla consapevolezza, alla cruda e terribile realtà. Vorrei poter urlare che non credo a nulla di ciò che dice, che è solo un ciarlatano, uno strizzacervelli, ma il calore aumenta ad ogni instante e le parole muoiono soffocate in gola.


"Purtroppo non posso prescriverle una cura efficace, ne farmaci o pillole varie. Posso solo consigliarle di cambiare la sua ruotine, di uscire, incontrare gente, amici che non vede da tempo, fare pace con se stesso e ... scrivere." 


Incontrare amici, si certo, come se ne avessi in questa città invasa dalla nebbia, come se potessi tornare a casa, prendere il telefono e chiamare gente a caso che non sento da una vita.

Ma scrivere ...


Ore 22.00


Di solito a quest’ora mi ritrovo a letto, mentre mi rigiro fra le lenzuola, cercando di prendere sonno, da solo, in silenzio, rotto solo dal lacrime di dolore, di tristezza infinita, copiose.

E invece… 

Sul tavolo vi è un foglio, e io, con una penna in mano, comincio a scrivere lettere, parole e frasi cercando di dare un senso compiuto ai miei pensieri. 


Ore 17.30 


Turno mattiniero terminato.

Numero decessi: 2

Numero vivi: restanti.


Prendo fuoco costantemente, la mia stessa anima arde.

Ma io sono cenere, trascinata dal vento, in una vita indegna d’essere vissuta.


Marco Casisa 

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