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Recensione: Spezzate di J.E.S. Doyle

  Scheda libro: Casa editrice: Tlon edizioni Collana: Numeri primi Anno di pubblicare: 2022 Genere: Saggistica/Femminismo Target: All Formato: Brossura, 297 pagine Codice ISBN: 978-88-31498-65-4 Prezzo: 19,00 € Risvolto di copertina: Donne che sbagliano. Donne che crollano. Donne che, con la loro condotta, osano sfidare i limiti imposti da una cultura patriarcale. Donne spezzate dal morboso piacere di vederle fallire. È di queste donne che Jude Ellison Sady Doyle parla nel suo nuovo libro, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, esplorando il meccanismo perverso che stritola e soffoca le donne di ogni epoca. Da Charlotte Brontë a Miley Cirus, da Britney Spears a Hillary Clinton, Doyle ricostruisce l’ascesa e la caduta di queste donne esplorando il fenomeno sociale della trainwreck: il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Come già ne Il mostruoso femminile, questo saggio crudo e graffiante è anche un invito rivol

L'angolo dello scrittore e della scrittrice: Gelosia di Carlotta Torielli

Gelosia

Non ci posso credere! Non riesco ad aprire la porta del mio studio – mio, nel senso che sono un avvocato associato; studio, come studio legale; porta, intesa come portone d’ingresso, non quello dell’ufficio in sé, insomma, ma del palazzo –. Sta di fatto che il dannato non si apre, neanche uno spiraglio e io sto cominciando a sudare, nonostante il freddo e le frequenti folate di vento. Uffa!

Provo di nuovo. Insisto. Niente.

Mi sfilo i guanti e mi rassegno a suonare il citofono, benché mi scocci disturbare i colleghi – oggi Miriam, la segretaria, è in ferie – ma ho urgenza di salire, si gela, e la ventiquattrore pesa… DRIIIING!

Segue il silenzio. Aspetto. Il silenzio comincia a farsi desolante.

Possibile che non ci sia nessuno disposto ad aiutare un bella ragazza in difficoltà?

Mi volto a destra e a sinistra ma la via è deserta. Un sacchetto di plastica rotola trasportato dal vento. Sospiro. 

Sono le 14:33, forse è un po’ presto, io di solito rientro dopo le 15, ma ho una noiosissima memoria da finire e devo depositarla entro domani, altrimenti… Non voglio pensare a cosa capiterebbe altrimenti. Devo entrare. DRIIIIIING! Subito.

Non c’è nessuno. Oppure quei lavativi non si muovono. DRIIIING! Miriam non c’è, l’ho già detto, e quelli non sono abituati a pigiare il pulsante dell’apri-porta. Pigracci! DRIIIIIIG! Infami! Più deciso, sta volta. DRIIIIIIIIIIIIIIIIG! Click.

Alleluja.

Qualche anima pia si degna di azionare l’apri-porta, sento lo scatto metallico… Sospiro di sollievo, temevo di essere condannata qui.

Eh già, ma il portone continua a non spostarsi di un millimetro. Assurdo. Quasi comico. Mi concedo una breve risata sarcastica per esternare il mio disappunto. O forse è un principio d’isterismo, chissà. La mia è una personalità complessa...

Risuono. DRIIING! Di nuovo l’apri-porta, click!, ma non c’è verso, il dannato portone non cede di un palmo. Gli do un calcio. Una spallata. Citofono. Non serve.

Ritento con la chiave – entra nella toppa, ma non riesco a farla girare – poi provo con un’azione combinata chiave-apri-porta-spallata. Inutile. 

Sbuffo. Impreco. Maledico i colleghi. Immagino che, nella loro ottica, rispondere al citofono per capire chi sia lo sventurato/a che continua a suonare sia troppo faticoso, anzi dovrei già ringraziare solo per il fatto che condiscendano a premere un pulsante, gli sgallettati. Comprimo i guanti in una tasca del cappotto e mi stringo la ventiquattrore tra le gambe, per liberarmi una mano, ed impedire, al contempo, il contatto tra la valigetta, piena di fascicoli e documenti, e il marciapiede, bagnato di pioggia. Il mio equilibrio è precario, sbilanciata come sono dal peso della borsa (non esco mai senza i miei accessori: la trousse per il trucco, la spillatrice d’emergenza, la penna Montblanc, e il mio personale kit di sopravvivenza, in caso di udienza-che-si-protrae-oltre-la-pausa-pranzo, comprensivo di deliziosa merendina dietetica alla mela, set per lavarsi i denti, e almeno un romanzo decente, nella fattispecie “Anna Karenina” di circa 900 pagine, sigh!, edizione rilegata. Che fardello!). Rovisto nella tracolla, tragicamente conscia dell’assurdità della situazione, in cerca di uno dei miei cellulari, preferibilmente quello azzurro, ormai decisa a telefonare in ufficio per convincere uno di quegli infami là sopra a risolvere il mio problema con il portone, magari a costringerli a scendere, e ad aprirlo manualmente.

La borsa mi cade a terra. 

Si inzuppa ben bene, è di stoffa, firmata. C’è un certo beffardo simbolismo in questo. Forse, impegnandomi, potrei trovare un significato recondito o una verità universale. Forse. Dopo. Adesso ho voglia di urlare. 

Mi trattengo, sono un avvocato. 

Raccolgo la tracolla, mantenendo a stento l’equilibrio, e suono ancora una volta il campanello, più per protesta che nella speranza che qualcuno mi apra – tanto so come si giustificheranno: non sapevamo fossi tu! Ha! Ha! Ha! – e nel frattempo mi cascano anche i guanti, sgusciati magicamente dalla tasca, in cui forse non li avevo sistemati bene. Impreco. Rido. Impreco di nuovo. Mi congratulo con me stessa per il mio dubbio senso dell’umorismo.

Sono le 14:49, sono ancora qui fuori, e inizia a piovere...

Okay, dico a me stessa, ricominciamo da capo. Prendo i guanti da terra, li scrollo, li scuoto, li ficco in borsa, riattacco a cercare il cellulare. Un extracomunitario mi punta contro un ombrello chiuso e mi chiede se voglio comprarlo.

«No» lo informo seccata. «Non mi serve. …Ci mancava solo il vu’ cumpra’!» mi lamento poi ad alta voce. Ma l'ambulante insiste: «Dai, ti prego.»

«No» replico, sgarbata. 

Quello non demorde, del tutto indifferente al mio affanno e al mio incontenibile fascino femminile. «Solo uno» dice. 

E perché? Rifletto tra me e me, quanti pensi che dovrei comprarne? 

«Dai…» continua quello imperterrito. 

Ma, misericordia, non si accorge del cavolo di frangente in cui mi trovo? Oh sì, eccome!, comprendo poi. All’improvviso mi rendo conto che non c’è proprio nessuno in zona, nemmeno adolescenti o vecchiette rimbambite, e che io ho la borsa spalancata sotto il suo naso, invitante, col portafogli in bellavista e le carte di credito a portata di mano. Magnifique!

«D’accordo» cedo. «Ascolta: l’ombrello non lo voglio, ma ti do dei soldi se riesci ad aprirmi il portone.» 

«Davvero?» ribatte il marocchino incredulo.

«Sì» confermo io. «Però sbrigati.» 

Dentro di me ritengo incredibile che non ci sia neanche un uomo nei paraggi disposto ad aiutarmi unicamente per la mia bellezza e il mio sex appeal e non per ragioni mercenarie. 

Ma mi accontento, pazienza, e mentre una parte del mio cervello si dedica beato ad una fantasia lampo in cui Jason Momoa mi soccorre su un cavallo bianco, passo il mazzo di chiavi all’extracomunitario, augurandomi che non me lo dia in testa per tramortirmi. 

Lui inserisce quella che gli indico nella toppa, da bravo, solo che non gira: «Ho paura di spezzarla.» dice. «Sei sicura che sia quella giusta?»   

«Sì» garantisco scocciata (Jason stava per baciarmi). «Non so perché sia bloccata.» 

«La pioggia, forse» spiega lui, condiscendente. «Ieri è piovuto tutto il giorno, il legno del portone si è gonfiato e ora fa resistenza.» 

«Ah!» faccio io, piccata. È indifferente alla mia bellezza e mi reputa pure idiota. «Be’, ce la fai o no?», lo stuzzico.

Il marocchino riprova, con più forza: «Sì» dice, ed in effetti il portone si apre. (Urrà!)

Io mi infilo dentro, in fretta. 

«Me li dai i soldi adesso?» mi chiede lui lamentoso, e sento che ha una nota di dubbio nella voce, come se si aspettasse un tradimento da parte mia. «Se no mi compri qualcosa…?» 

«Non voglio ombrelli» rispondo io. «Ma i soldi te li do, ecco.»  

Lesta cerco nel portafogli, niente spiccioli, ovvio, così gli allungo una banconota da cinque Euro e mi avvio per le scale, dandogli le spalle.

«Grazie» risponde lui, quando io sono quasi a metà della rampa. «Grazie.» 


Soltanto verso sera, dopo che rileggo la memoria ormai finita, recupero la mia naturale percezione delle cose e realizzo che avrei dovuto ringraziarlo io, invece, quel ragazzo, e che mi sono comportata come un’odiosa snob, classista e maleducata. Oh, ma la sei!, bisbiglia maligna la mia coscienza. E ha ragione! Un pochino… Ma che posso farci? Nelle situazioni di stress subisco drastici cambi di personalità. Non sono schizofrenica... Sì, che la sei! Taci, stupida coscienza! 

Uhmm… Non sono schizofrenica, è solo che ho un carattere complesso e denso di sfumature, ma ora ho bisogno di interiorizzare gli eventi di oggi. Pensate che sia mentalmente instabile, vero? È perché siete insensibili. Ma io sono superiore, gné gné! Comunque adesso lasciatemi stare, che devo deprimermi!

Dicevo: Ahimè! Lui è stato gentile e mi ha salvata, poverino, e io… Sento una fitta allo stomaco. (È così confortante: significa che sono buona?) Sì, va bene, ero nervosa, irritata, e non gli piacevo, però… Come dargli torto? E poi, rifletto, era anche un ragazzo carino, giovane, sui venticinque… Non ci avevo fatto caso, prima. Malvestito, okay, ma… Deve essere difficile stare lontano da casa e fare l’ambulante, magari non ha neanche un posto in cui dormire… Sospiro. (Forse più tardi mi produrrò in un pianto a dirotto!) E sprofondo nel senso di colpa, come è giusto che sia, così, poco dopo, quando finalmente esco dallo studio, alle sette passate, e mi ricongiungo col mio fidanzato, Simone – dentista, a giugno ci sposiamo, non siamo teneri!? – ammorbo il mio amore con gli accadimenti del pomeriggio, nella speranza, io credo, di fare ammenda, in qualche modo, e di lenire il biasimo verso me stessa. (Anche se, diamine, in fondo gli ho mollato 5,00 Euro! Che ha da rompere?)   

Forse indulgo troppo in particolari fisici, o nell’attribuire al mio marocchino di fiducia altissime doti morali, oppure romanzo troppo le circostanze, descrivendo me come una povera fanciulla in difficoltà e il mio salvatore come un prode eroe senza macchia e senza paura (seppure un po’ maleodorante)… Non lo so, ma da qualche parte sbaglio perché Simone, inizialmente divertito dalla mia disavventura, alla fine si stizzisce. Si adira. Sbraita. Impreca.

Quant’è dolce!!! Non è adorabile? È geloso! 

Certo, è anche totalmente fuori di melone… Figurarsi! Sostiene che basti dare qualche soldo ad un marocchino per trovarselo attorno a tutte le ore! Ma che sciocchezze!!! Ricordo al mio bon-bon che stiamo parlando di un ambulante, che viaggia, errando per il vasto mondo, e probabilmente vive mirabolanti avventure. Che non mi interessa e che sicuramente io non lo vedrò mai più.

Mai, mai più, lo giuro!     


Ma naturalmente sbaglio di nuovo, perché l’indomani me lo trovo davanti al portone dello studio.

Non faccio fatica a riconoscerlo perché indossa gli stessi vestiti di ieri, anche se al posto degli ombrelli – oggi c’è il sole – ha un assortimento di fazzoletti di carta e accendini. Si avvicina, lento e inesorabile: «Fazzoletti?» esordisce, ed inspiegabilmente sorride, con un che di… Mio Dio, di allusivo, di seducente. Poco importa che dica fazzoletti, perché suona più come un: «Ti va un bel wurstel caldo, dolcezza?» Santa polenta. 

Naturalmente accanto a me c’è Simo, che ha voluto accompagnarmi.

E naturalmente Simo sta impallidendo per la rabbia e presto comincerà ad urlare. 

«È lui, vero? Lo sapevo! Lo sapevo!!!»

«Oddio, Simone, io non capisco… Ti assicuro che ieri non mi ha neppure degnata di uno sguardo.»

«Ah, ma davvero?»

«Sì, ti assicuro! Vorrà vendicarsi per…»

«Accendini…?» propone ancora il mio marocchino, con un tono ancora più languido e fascinoso.

Io sono senza parole, Simone ha le labbra così sottili che quasi non si vedono, compresse come sono per la rabbia.

«È la tua ragazza, sì?» chiede il mio marocchino, tra il canzonatorio e il provocante.

È allora che Simone esplode e io e il mio fidanzato inauguriamo il nostro primo vero litigio coi fiocchi. E no, non siamo teneri in questo momento.

Volano accuse ed improperi, ci rinfacciamo promesse ed episodi passati, il marocchino, intanto, capendo l’antifona, si allontana ridendo. Simone se ne accorge, mi accusa, si dimostra quanto mai irragionevole; io alzo la voce, lui alza la voce, io mi impunto, lui impreca, alla fine passa il mio capo, l’avvocato Mario Cendon, elegante e composto, e mentre ci saluta, celando l’imbarazzo dietro ad un’espressione severa, io desidero la morte, fulminea e definitiva. Gli avvocati dovrebbero dimostrare un po’ di contegno in pubblico. Lo so. Lo prevede persino il codice deontologico. Sob!

Simone comprende e ha la grazia di arrossire – io sono semplicemente scarlatta – si ricompone, si scusa, e mi stampa un bacio standard sulla guancia. Ne parliamo questa sera, conclude.

Io gli elargisco un sorriso tirato e sgattaiolo su, dietro a Cendon.

Stupido, sussurro fra me e me, risentita, ma non so se mi riferisco al mio marocchino o al mio fidanzato.


Ma a sera io e Simone facciamo pace, e poi faville. Lui è un tesoro, come sempre, tutto zucchero e miele. Ammette di aver agito da idiota, mi coccola, mi bacia, e mi porta a cena fuori trattando con squisita cortesia tutti i marocchini e gli indiani che cercano di venderci rose, comprandomene tre, addirittura, due rosse ed una bianca. Io me ne faccio cadere una su un piede e mi smaglio i collant, ma che importa? Trascorriamo una serata incantevole e siamo più uniti e più innamorati di prima. 

Ah, che bella la vita! Che meraviglia il mio fidanzato!

Siamo teneri, belli, e prossimi al matrimonio! Dio, non mi invidiate (collant a parte)?


Non faccio in tempo a crogiolarmi nella mia felicità che, sabato pomeriggio, al Supermercato, mentre io e Simo facciamo la spesa insieme, tenendoci per mano come una deliziosa coppia di coniugi anziani, ci imbattiamo nel mio marocchino.

Di nuovo l’extracomunitario sorride e guardandoci si illumina, quasi avesse di fronte l’amore eterno. «Ciao!» saluta, accattivante. «Come va?»  

Io alzo gli occhi al cielo e mi porto una mano alla fronte.  


Tre mesi dopo io ho un principio di esaurimento nervoso. Non è colpa mia… (Sì, che la è!!! BUUUUUU!!!) Ad ogni modo le mie percezioni sono confuse, alterate, i miei cambi d’umore sempre più frequenti, la mia stupida coscienza è andata in ferie, chissà per quanto, e in più… BUUUUUUUUU!

Magari sono depressa, non esaurita. Che ne so? La diagnosi me la sono fatta io, e di sicuro non sono uno psichiatra!!!! Snif. BUUUUUU!!!! Perché non ho fatto medicina? BUUUUUU! Tranquilli, ora sto per bere una camomilla… Mmm, buona! Ed ecco la drammatica verità: io e Simo siamo ai ferri corti. Il matrimonio è saltato, con rammarico dei miei suoceri, apprensione di mia madre e dichiarata ostilità da parte di mio padre, che ha anticipato tutte le spese.

Viviamo ancora insieme, io e Simone, ma non siamo più teneri, soltanto belli, e ci odiamo. Io mi sento costantemente a pezzi, dilaniata dal tormento per le mie responsabilità: oh, se solo non fossi così attraente! Se solo non facessi breccia in ogni cuore! Simone è geloso marcio, sospetta di me, e ormai è evidente che ha ragione: Amhed, il mio marocchino, è perdutamente innamorato di me! Ma che gli faccio io agli uomini? 

Tuttavia a volte mi pare che Amhed si comporti in modo strano, illogico, insensato. Provo a parlargli, a spiegargli che, per quanto sia lusingata dal suo interessamento, mi sta creando grossi problemi con Simo, di smetterla, di dimenticarmi, ma quello ghigna e sta zitto, compiaciuto. Perché? Non capisco.

Che sia pazzo? Se mi incontra da sola non mi degna di uno sguardo (come può?), ma se c’è il mio non-più-fidanzato allora la musica cambia: fa il malizioso, il romantico, mi regala le rose e gli accendini… 

Io lo minaccio. Lo supplico. Provo a corromperlo. Lo diffido. Niente.

È sempre in mezzo ai piedi, e Simo si inalbera e mi tratta come se fossi io ad importunare il marocchino e non viceversa.

Denunciarlo? Il mio Amhed? E per che cosa? E poi non voglio discutere questa incresciosa vicenda in Tribunale, dinanzi ai miei colleghi e al mio capo, senza contare che Simone è contrario.

La situazione però è insostenibile. Simo mi fa continue scenate e litighiamo, litighiamo, e litighiamo ancora. Sempre la stessa solfa.

E tutto per quel cavolo di portone dello studio e per un extracomunitario disturbato.

E… sì, lo ammetto, per il mio ineguagliabile fascino! Mea culpa! Mea culpa! Mea maxima culpa! Che succederà adesso? Come ne verremo fuori, io e il mio dolce tesoro? Quanto soffro!!! 


Oggi al lavoro giornata nera, prima in udienza e poi in studio. E dal momento che, in quest’ordine: ho insultato Miriam, la segretaria, le ho gettato l’acqua dei fiori in faccia, sono scoppiata a piangere, le ho tirato un codice commentato addosso – quante storie! Ho la mira storta, l’ho colpita ad una spalla – le ho chiesto scusa, l’ho insultata di nuovo, il capo ritiene che sia nel pieno di un esaurimento nervoso (ma va!?), probabilmente legato al sempre più difficile rapporto con Simo. Così mi ha concesso una settimana di vacanza per rilassarmi un po’. 

Sto tornando a casa, dunque, in delizioso anticipo. Mi farò un bagno caldo, chiamerò Lory, Elisabetta, e… organizzerò qualcosa di speciale per Simo. Ha ragione mia madre, possiamo ancora farcela a rimettere insieme i pezzi, basta volerlo. E io sono talmente irresistibile!

Armata di ottimismo e buona volontà, varco la soglia di casa e odo dei gemiti provenire dalla stanza da letto. Classico. Il mio fidanzato mi tradisce. 

Va be’, anche io ho avuto un paio flirt, vedrò di essere lungimirante e perdonare. Non sarà semplice, ma a Simo ci tengo, e voglio davvero ricominciare e convolare a giuste nozze. 

Questo, certo, non significa che la passerà liscia: razza di svergognato, almeno abbi la decenza di consumare altrove! 

Mentre medito su quella che dovrà essere la mia entrata ad effetto (con o senza katana?), ho la consapevolezza che se fossimo in un film troverei Simone a letto con Lory od Elisabetta, le mie migliori amiche. O forse con entrambe, se fosse una commedia, o con mia madre, se la commedia fosse demenziale. 

Decido di smettere di lambiccarmi, naturalmente non è un film, e Simone sarà con qualche paziente o con quella sciacquetta del piano di sopra. Ho già notato che punta al mio angelo, la sgualdrinella! 

Pregusto il piano: terrorizzarli e mettere in fuga lei, magari senza veli, quindi dispensare la mia comprensione e la mia superiorità morale, ovviamente tra i singhiozzi. Poi ostenterò il mio dolore, la mia delusione, e Simo si renderà conto di amarmi alla follia... e vissero tutti felici e contenti! Tranne la sciacquetta in fuga che naturalmente si prenderà una multa per oltraggio al pudore. Ha! Ha! Ha! Ho sete di sangue e un esaurimento in corso! HA! HA! HA!

I gemiti si fanno più intensi, prosaici, non posso indugiare oltre: voglio coglierli in flagrante. E ci riesco.

Mi schiarisco la voce e mi avvicino di soppiatto. Osservo la scena da dietro la porta socchiusa, metto a fuoco e…

Inorridisco.

Simo è a letto... con Amhed!

Eh sì – sorpresa!, sorpresa! – il mio convivente con il mio marocchino.

Tento di deglutire, paralizzata.

La consapevolezza del mio mondo in frantumi mi coglie alla sprovvista, rovinandomi addosso micidiale, con uno schianto.

Le incongruenze che mi assillavano si chiariscono, annientandomi, e io vacillo indecisa tra uno svenimento o la vendetta. Non era me che Simo temeva di perdere, e non era a me che Amhed rivolgeva occhiate languide. I due avevano… hanno, una relazione. Da prima della faccenda del portone, quella è stata una coincidenza, una fatalità. Amhed, però, ne ha approfittato: voleva che io e Simone rompessimo, a tutti i costi, che non ci sposassimo. Perciò cercava di farlo ingelosire. 

Wow! Tradita, ingannata, colpevolizzata.

Scelgo la vendetta!!! 

Con quali opzioni? Spada? Frusta? Video shock da diffondere online? Passeggio avanti e indietro, dubbiosa…

Loro neanche si accorgono di me, troppo intenti a consumare il peccato, teneramente immersi nella penombra e nel reciproco ardore. Ma che dolci! E che ignari!

Evidentemente sottovalutano l’entità del mio esaurimento nervoso e ignorano che ho appena deciso per l’opzione katana! 

Ha! Ha! Ha!

Accendo la luce e spalanco la porta della camera con un calcio. Quando sfodero la spada sto ancora ridendo.


Carlotta Torielli


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