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Recensione: Spezzate di J.E.S. Doyle

  Scheda libro: Casa editrice: Tlon edizioni Collana: Numeri primi Anno di pubblicare: 2022 Genere: Saggistica/Femminismo Target: All Formato: Brossura, 297 pagine Codice ISBN: 978-88-31498-65-4 Prezzo: 19,00 € Risvolto di copertina: Donne che sbagliano. Donne che crollano. Donne che, con la loro condotta, osano sfidare i limiti imposti da una cultura patriarcale. Donne spezzate dal morboso piacere di vederle fallire. È di queste donne che Jude Ellison Sady Doyle parla nel suo nuovo libro, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, esplorando il meccanismo perverso che stritola e soffoca le donne di ogni epoca. Da Charlotte Brontë a Miley Cirus, da Britney Spears a Hillary Clinton, Doyle ricostruisce l’ascesa e la caduta di queste donne esplorando il fenomeno sociale della trainwreck: il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Come già ne Il mostruoso femminile, questo saggio crudo e graffiante è anche un invito rivol

L'angolo dello scrittore e della scrittrice: L'incompletezza di Silvia Argento

 


Incompletezza


Basta! Ti ho detto che non ho bisogno di niente! Quante volte devo ripetertelo?! Non mi serve il tuo aiuto! Anzi, non mi servi tu! Non ho bisogno di niente! Mi hai stancato, basta, ciao!” disse Miriam e ripose lo specchio. Si era divertita ancora una volta a provare la splendida sensazione che si ha dicendo a qualcuno che non hai bisogno di lui, che non ti serve. Per rifiutare qualcosa bisogna averla. Aprì la porta della sua stanza e si chiese: ”Perché l’ho fatto di nuovo?”, erano giorni che prometteva a se stessa di non farlo, di non prendere quello specchio e di non dirgli quelle cose come fosse una persona, eppure da due settimane, ogni volta che i suoi genitori uscivano, si ritrovava nella sua stanza a rompere quella promessa. Il senso delle sue affermazioni era sempre lo stesso, cambiavano le parole, ma guardava sempre uno specchio che teneva in mano, era così che trascorreva il tempo mentre loro non c’erano e poi studiava. O meglio, si metteva il libro davanti e “leggiucchiava” convinta che questo la aiutasse a memorizzare. All’età di diciannove anni, non sentiva assolutamente il peso degli esami che la attendevano, né voleva crearsi qualche problema in più di quelli che già avesse.


Sicuramente il lettore si sarà fatto un’idea di una persona o completamente folle o completamente sola, entrambe sbagliate. Non tanto per il “folle”, né per il “sola”, quanto per il “completamente”. Nessuno è completo, in natura qualsiasi cosa ci generi ha bisogno di essere composta da due parti che spesso mancano o difettano. I nostri geni sono composti da coppie di alleli, il nostro DNA da coppie di basi azotate, le nostre parole da lettere, la nostra vita? La nostra vita non è ciò che ci genera, è ciò che abbiamo dopo che siamo generati, ergo non è completa. Completo è quell’aggettivo e completa è quella situazione che si hanno quando uno si sente… completo. Non c’è alcun sinonimo con cui io potrei sostituire questa definizione. È uno dei frequentissimi casi in cui le parole non contano molto, ma il senso è così importante da poter far morire o vivere a seconda di come lo si interpreta. La completezza è una sensazione che pochi se non nessuno hanno mai provato e se adesso state riflettendo su qualche momento in cui vi siete sentiti completi o su qualche ragione per cui qualcuno si potrebbe definire completo, significa che non avete idea di cosa la completezza sia: non servono esempi quando hai già vissuto qualcosa. Miriam era così, come voi, che leggete, come la Pietà Rondanini di Michelangelo: incompleta.


La giornata era già finita, era mattino; lo specchio era riposto nel cassetto e non ne sarebbe uscito fino alle 15:00, orario in cui Miriam si sarebbe ritrovata completamente, anzi non completamente, semplicemente sola. La scuola rappresenta per ogni adolescente degno di questo nome la tortura più grande, tranne quando si ha una di quelle giornate piene zeppe di supplenze e così era stato per lei quella mattina: solo la professoressa di filosofia, unica materia che Miriam aveva letto, era arrivata. Chiunque avrebbe pensato ad un caso di fortuna o esultato o chiamato qualche amico o qualsiasi altra cosa che dimostrasse comunque la sua gioia, invece lei non gioì nemmeno. Prese il solito 6 all’interrogazione (che bastava eccome per lei) e poi uscì da scuola con l’indifferenza del mondo e la sua a farle compagnia. Camminava, come al solito distratta da niente ma di sicuro non attenta a quanto la circondava, quando ad un tratto vide seduta su una delle panchine della fermata dell’autobus una ragazza che piangeva. Esistono persone insensibili, che di fronte a qualcuno triste o che addirittura piange non provano alcuna emozione (in effetti essendo insensibili è un po’ ovvia come cosa, ma mi serviva specificarlo per continuare l’excursus o forse non ho voglia di cambiarlo, ma… perché leggete ancora la parentesi?), esistono persone sadiche che invece di fronte a una visione del genere godono, fra tutte le diverse tipologie, vi sono anche persone come Miriam che, essendo già tristi da soli, non hanno bisogno di ascoltare anche i problemi degli altri, eppure la curiositas e non tanto la pietas spesso e volentieri le frega e le spinge a porre la domanda che Miriam, avvicinandosi con tutta la timidezza possibile, fece a quella ragazza. “Scusami, so che non sono affari miei, ma… come mai piangi?”, la ragazza si sentì in un certo senso violata. Sembrava assurdo: una persona che piange seduta su una panchina, dove tutti possono vedere, di sicuro non dovrebbe essere alla ricerca di discrezione, ma a volte l’istinto ci fa fare delle cose che in effetti non vorremmo fare o sarebbe meglio dire che ci fa fare cose che vorremmo fare, ma che non dovremmo. In quel momento quella ragazza era nel suo mondo, per quanto triste, nel suo mondo e le piaceva o dispiaceva pensare che nessuno la potesse vedere o che a nessuno importasse. “Hai detto bene, non sono affari tuoi”, così dicendo si alzò e se ne andò. Miriam rimase ad osservare la direzione verso la quale la ragazza era andata e, anche quando ella era ormai sparita, continuava a fissare quel punto come ipnotizzata. A volte non riflettiamo su cosa guardiamo o sulla ragione che ci spinge a farlo, non c’è sempre uno scrittore che ci spiega perché facciamo determinate cose anche perché di solito non c’è nessuno interessato a leggere la descrizione del personaggio che siamo noi, eppure quando e se troviamo il lettore giusto, paradossalmente, ci rendiamo conto che non ci serve qualcuno che scriva la nostra storia, ma qualcuno che la legga e che, resosi conto che in mancanza di un autore la storia non è ancora stata composta, ci aiuti a scriverla.


Tornata a casa, chiacchierò con i genitori nel solito modo, quale modo? Paradossalmente Miriam si mostrava entusiasta di tutto ciò che le accadeva, in particolare in quell’occasione raccontò della ragazza che piangeva alla madre, che le rispose che aveva sbagliato ad intromettersi. In effetti Miriam concordava con questa affermazione, ma non lo disse, quasi come per nasconderlo. Non appena si fecero le 15 ritornò al suo specchio. All’improvviso, mentre stava “parlando con lui”, si fermò e pensò fra sé: ”Chissà come si chiamava quella ragazza”. Non le era mai successo di interrompere, nel bel mezzo di una frase detta a quello specchio, il discorso che stava facendo per lasciarsi andare ad ulteriori pensieri che non fossero la totale solitudine e la mancanza di qualcuno a cui dire: ”Non fa niente, sto bene”. Per questa ragione, si sorprese non poco e cominciò a dubitare di ogni cosa. Sembra inverosimile che arrivasse a dubitare di tutto, in particolare di quello che stava facendo, solo in quel momento, dopo che si era lasciata andare molte volte ad una manifestazione così bizzarra della sua incompletezza. Non appare così strano, però, se si pensa che il vuoto che sentiva dentro era rappresentato dalla mancanza di qualcuno a cui dire ciò che proferiva ad alta voce di fronte allo specchio e provocato sostanzialmente dall’assenza di un’altra persona. Quindi il fatto che riuscisse, per la prima volta, a pensare a qualcuno che non fosse se stessa l’aveva completamente sconvolta. Si faceva grande in lei il desiderio di comprendere quella ragazza. Perché? Perché non era mai riuscita a comprendere se stessa, non si era mai neanche lasciata andare alla riflessione in toto di ciò che la riguardava. Non aveva mai chiesto a se stessa:”Ehi! Ma che ti prende? Perché invece che parlare con uno specchio non provi ad aprirti?”, non per mancanza di coraggio o di intelligenza, ma per una semplice distrazione e trascuranza. Smise quindi, per la prima volta da quando soleva fare quella “strana cosa” e si dedicò allo studio, o meglio, alla lettura come già ho specificato.


L’indomani si illuse di poter rivedere quella ragazza al solito posto, ma, ovviamente, non riuscì a trovarla. Allora entrò in classe e visse una delle mattinate scolasticamente parlando più pesanti della storia. Uscita, si guardò intorno, senza trovare nuovamente nulla, finché capì che si stava comportando come una stalker, si mise a ridere fra sé e tornò a casa. Quel giorno non iniziò neanche il suo “sfogo” di fronte allo specchio e così il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, finché non passarono due settimane senza che lei si azzardasse minimamente a fare una cosa di quel genere. Quando si ritrovava sola in casa, alle 15, piuttosto che dedicarsi a quell’attività così insolita, rimaneva in silenzio nella sua stanza ascoltando musica oppure guardando la tv.

Trascorsa un’altra settimana, un giorno, sempre alle 15, si ritrovò paradossalmente ad avere di nuovo bisogno dello specchio. Ma stavolta non disse le solite cose e neanche gridò, bisbigliò invece:

È così che funziona. Riesco a non pensarci per qualche istante, per qualche giorno, poi arriva qualcuno, qualcosa, che distrugge tutto. Forse è troppo difficile ammettere che in realtà non sia stato distrutto nulla, ma che è così che vanno le cose, eppure non riesco a convincermi che la vita sia soltanto tristezza. Cos’è che rende tutto così nullo? Così incompleto? E cosa vuol dire completo? Io non lo so, vorrei solo che tu mi aiutassi a scoprirlo, ma non so neanche chi sei tu, perché non c’è un tu specifico. C’è solo l’ideale di qualcuno che in teoria dovrebbe capirmi, ma che in pratica non esiste nemmeno. Vorrei poter parlare di Dio, ma non c’entra, non è un’esistenza in quel senso, non è quel qualcuno, ma è qualcuno. Dio, anche se esistesse, sarebbe un’entità superiore, qualcosa fuori da me, io voglio qualcuno che sia dentro, anzi, no, voglio qualcuno che sia accanto. Dentro voglio me stessa, ma voglio che sia felice. Voglio dentro qualcuno felice. Non voglio un bambino che frigna, voglio una bambina che gioca”.


La mattina seguente si dimenticò che, a causa dell’assenza della professoressa di italiano che era in maternità, sarebbe dovuta entrare a seconda ora. Si era quindi recata a scuola alle 7 e 30 come di consueto. Allora decise di aspettare in corridoio e magari di rileggere qualche lezione. Prima che suonasse la campanella il corridoio brulicava di ragazzi che facevano avanti e indietro, come ogni mattina, stavolta però Miriam si sentiva alquanto disturbata da quel viavai, intenzionata com’era a leggere attentamente almeno in parte ciò che aveva davanti. Resasi conto che non vi sarebbe potuta mai riuscire, ripose il libro nello zaino e cominciò anche lei a “passeggiare” per i corridoi. Così, d’un tratto si fermò basita poiché realizzò che lì, appoggiata alla finestra e con aria pensierosa, vi era la ragazza che aveva visto piangere circa un mesetto fa. Capelli corti e mossi, occhi verdi, di media altezza e piuttosto carina, così la ricordava e così se l’era ritrovata davanti. Sarebbe stato davvero indisponente da parte sua avvicinarsi chiedendo qualcosa vista la risposta che aveva ricevuto quella volta, così Miriam si limitò a fissarla. Certo, una mossa non meno inquietante, ma all’apparenza meno invadente ed esplicita. All’improvviso la ragazza si voltò, la vide e capì quello che stava succedendo. Miriam andò in classe con aria disinvolta, fuggendo da quello sguardo che per lei era quasi ipnotico. Allora, con sua grande sorpresa, fu seguita proprio dalla ragazza, che, entrando, le disse:”Ciao”. Imbarazzata, Miriam rispose:”Ciao. Scusami per prima, non volevo fissarti!”, “Oh, ma figurati. Il mio nome è Chiara, piacere di conoscerti”, rispose la ragazza, di cui finalmente Miriam aveva scoperto il nome. “Piacere Chiara, ma in effetti ti conoscevo già…”, rispose allora lei, tentando chiaramente di introdurre come argomento il loro primo incontro. “Lo so. Ero in un momento di debolezza ed ero paradossalmente convinta che nessuno mi avrebbe visto. Tu non mi conoscevi, eppure mi hai chiesto cos’avevo. Mi sono sentita un po’ offesa dalla tua pietà, ma devo ammettere che dopo mi sono sentita anche meglio”, disse allora Chiara. Miriam rimase sorpresa da quel suo atteggiamento. Si trattava indubbiamente di una persona molto franca e sincera, decisa e sfacciata, che non aveva paura di dire chiaramente ciò che pensava, in questo senso il nome della ragazza, Chiara, rappresentava quasi un segnale della sua personalità. Eppure, avendola vista piangere, Miriam si aspettava una persona fragile, timida, insicura, ma Chiara non era così. Perciò prima di rispondere la guardò in maniera perplessa, poi disse: ”Non so quale fosse il tuo problema, ma spero tu l’abbia risolto”, “Sì l’ho risolto”, rispose l’altra. Suonò la campana della prima ora. Allora Chiara aggiunse: ”Ora vado, ciao”, Miriam ricambiò il saluto. Ad un certo punto la ragazza tornò indietro e, sbucando fuori dalla porta, disse :”Ah, dimenticavo, grazie”.

Dopo aver, per così dire, “metabolizzato” la cosa, Miriam pensò fra sé: ”Mi ha ringraziato e nonostante la mia affermazione fosse nata da una voglia di consolare lei, quel grazie ha in realtà illuminato la giornata a me”.

Non appena uscì da scuola Miriam si guardò intorno e capì che per fare in modo che lo specchio le rispondesse doveva fornirgli una bocca per parlare, solo così sarebbe stato in grado di completarla.


Silvia Argento

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